Bepi, una persona può lasciare il segno con successo parlando “solo” di cucina? Non c’è alcun dubbio. Ma dipende da quello che si dice e da come lo si dice.
Come mangiamo? Non sempre come dovremmo. Se abbiamo fame, mangiamo di tutto e di più. Se ci accostiamo al cibo con curiosità, mangiamo sicuramente meglio e in maniera sag gia e consapevole.
Lei sembra un po’ polemico nei confronti della spettacolarizzazione della cucina . Dico solo che raramente in una trasmissione in cui aspiranti chef si battono per mettere insieme questo o quell’ingrediente, c’è qualcuno che fa un po’ di cultura, spiegando come è nato un piatto, chi la inventato, come è nato.
Sta dicendo che siamo un popolo di superficiali? Non mi permetterei mai. Dico solo che dovremmo forse dedicare qualche minuto ogni tanto a chiederci cosa mangiamo e perché. Vivremmo meglio, sicuramente.
Nelle sue duecento storie quanta veridicità c’è? Sono tutte assolutamente vere, ma è possibile che qualche dettaglio abbia origine dalla cosiddetta vox populi e in questo caso diventa incontrollabile.
La finanziera, per esempio, era un cibo per i vertici della Finanza? No, un tempo i cuochi dell’alta borghesia si ingegnavano a preparare piatti succulenti con le parti meno nobili del pollo. Abbiamo testimonianze dal capocuoco di Vittorio Emanuele II Il piatto, aromatizzato col Madera o il Marsala e arricchito di tartufo, prese il nome dalla finanziera, l’elegante giacca indossata dagli uomini d’affari che erano soliti frequentare gli ambienti chic di Torino.
Lei ha una moglie francese, Nathalie Peigney, scrittrice a sua volta blogger e influencer, conosciuta come Sophie the Parisian, Quanto siamo influenzati dalla cucina francese? Le due cucine hanno molte interconnessioni. Se pensiamo al nostro Rinascimento, comprendiamo subito come anche nell’arte del cucinare abbiamo insegnato agli altri, anche ai francesi. E se pensiamo al dominio francese nel nostro Meridione, non possiamo ignorare che le grandi famiglie borboniche mandavano i loro cuochi a Parigi per apprendere i segreti della grande cucina d’Oltralpe.
È vero che la baguette non nasce come un pane francese? La baguette è nata a Vienna, intorno al 1830, quando si comincia a cuocere il pane con i forni a vapore, per favorire la formazione della crosta croccante lasciando morbida e fragrante la parte interna. La baguette arrivò in Francia per caso. I primi ad approfittarne furono gli aristocratici francesi , che la accolsero favorevolmente come una viennoisérie. Fu allora che accadde un imprevisto: una legge dello Stato stabilì che i forni di tutto il Paese non potessero iniziare a panificare prima delle quattro del mattino. E poiché le pagnotte tradizionali di pain de campagne richiedevano più ore di cottura, non potevano essere nelle panetterie di primo mattino. In breve il successo della baguette, che si cuoce in tempi molto più brevi, fu tale che anche le altre classi sociali se ne appropriarono. E divenne il pane più diffuso.
Lei racconta nel suo libro una storia insospettabile riguardo al kamut, il “grano del faraone”. È una storia affascinante. Il suo nome lascia supporre origini nell’antico Egitto. Si narra che nel 1949 un aviatore americano abbia trovato del grano in un’anfora dissotterrata da una tomba egizia. Tornando negli States, portò con sé una manciata di quel grano, 37 chicchi per l’esattezza, che volle regalare a un suo amico del Montana. Costui li avrebbe affidati a suo padre agricoltore, che, con la volontà che appartiene solo agli uomini che coltivano la terra, semina dopo semina, ne ricavò un particolare tipo di grano. L’agricoltore lo chiamò kamut, il grano del faraone, rifacendosi ai geroglifici egizi. Mister Bob Queen, ne brevettò nome e processo d fabbricazione. Poi fondò una società per lo sfruttamento del brevetto e adesso, per farla breve, è l’unico al mondo al quale ogni produttore di kamut deve pagare i diritti. Un vero business in grande stile.
Quando diciamo che qualcuno (non noi!) è abbacchiato, ci riferiamo ai poveri agnellini? A volte la semantica è sorprendente. Proprio pochi giorni fa, mi sono ritrovato in una bella cena milanese a disquisire tra semantica, filologia e gastronomia sull’origine della parola ‘abbacchio’. Vede come la storia del cibo è costruttiva? C’era chi sostenesse che l’aggettivo deriva dalla “bacchiatura”, riferito alla raccolta delle olive mature, e chi invece difendeva la tesi che si riferisse all’abbacchio, il piccolo nato dalla pecora, indifeso e destinato a finire nel forno e per questo triste, abbacchiato, appunto. Qualcun altro sosteneva giustamente che anche il piccolo della pecora dà il suo contributo all’alimentazione umana. La pecora, infatti, rende moltissimo: fornisce la carne da mangiare, il latte da bere, la lana per scaldarsi, la pelle per vestirsi e, non ultimo, lo sterco, che è uno dei migliori concimi esistenti. Non vedo proprio il motivo di sentirsi un po’ giù se siamo abbacchiati!
Davvero molto interessanti queste storie. Verrebbe voglia di leggere il libro tutto d’un fiato. Non sono d’accordo. Il mio libro è un po’ come un pasto, a tavola. Un antipasto, un primo, un secondo, forse un dessert. Solo così si gusta il tutto. Il mio blog BlaBlaNews.net è come una tavola ideale, alla quale ci si siede quando si ha appetito. Una storia oggi, una domani… un po’ alla volta, insomma.