Mio padre aveva un permesso speciale, non perché fosse un'autorità, ma perché era proprietario dell'unico cinema della città riservato ai civili. Bari era una città moderna, aveva cinema e teatri, ma erano stati tutti requisiti dalle forze d'occupazione e riservati unicamente ai militari anglo-americani. Il cinema «Impero», il più grande e il più moderno della città, progettato e costruito da mio padre qualche anno prima, era sfuggito alla requisizione ed era l'unico che proiettasse film per la popolazione civile, autorizzati dal PWB, il PsychologicalWarfare Branch (traducibile come "Divisione per la guerra psicologica"), un organismo del governo militare anglo-americano incaricato di esercitare il controllo sui mezzi di comunicazione di massa italiani: stampa, radio e cinema.
Noi abitavamo a non più di venti o trenta metri dall'ingresso del cinema e tutte le sere, finiti i compiti, io uscivo di casa per raggiungere mio padre. Mi piaceva stare con lui, era un idolo per me. Sapeva sempre quel che faceva. Il cinema, sempre affollatissimo, apriva ogni giorno alle 14 e il primo spettacolo iniziava un quarto d'ora dopo. Fino a sera c'era tempo per fare quattro spettacoli prima che scattasse il coprifuoco e la gente potesse rincasare senza rischi. Ma lui, mio padre, aveva escogitato un sistema per farne cinque di spettacoli, anziché quattro, nello stesso spazio di tempo. Il suo era l'unico cinema e lui voleva che il maggior numero di baresi potesse accedervi. “Ne hanno diritto – diceva – con tutto quello che hanno sofferto con la guerra!”. I film, quasi tutti americani con sottotitoli in italiano, lui li “visionava” prima di proiettarli al pubblico.
Accadeva di notte, quando tutti gli spettatori erano andati via e la sala era vuota. Lui era seduto da solo in una delle ultime file, gli occhi fissi allo schermo. C'era poi l'operatore in cabina di proiezione collegato con un telefono interno ad un ricevitore situato nei pressi della biglietteria del cinema, fuori della sala. Lì, di solito, c'ero io in piedi col ricevitore in mano pronto a trasmettere all'operatore gli ordini di mio padre. Il quale, avendo già visto il film per intero, lo guardava una seconda volta e ogni tanto gridava: “Ora!”.
Io nel ricevitore ripetevo tempestivamente: “Ora!” e l'operatore in cabina inseriva un pezzetto di filo di cotone bianco in uno dei fori della pellicola che scorreva nel proiettore. Questa operazione si chiamava “filaggio”. Alla fine della proiezione, mio padre saliva in cabina e insieme all'operatore rigiravano a mano tutta la pellicola, sul bancone di montaggio. Quando trovavano un filo bianco, procedevano cautamente fino al filo successivo e poi mio padre tagliava via lo spezzone di pellicola compreso tra i due fili. In sostanza, lui eliminava dal film tanti dialoghi troppo lunghi o scene che riteneva inutili, col risultato di ridurre la durata complessiva del film di 15 o 20 minuti, senza peraltro danneggiarne la storia. In questo modo, con un film di durata ridotta, in un pomeriggio si potevano fare cinque spettacoli anziché quattro e quindi molti più spettatori potevano approfittare di quello svago.
Nessuno si è mai accorto di quella specie di saccheggio, che forse non sarebbe piaciuto ai censori del PWB, ma una cosa è certa: molta gente ha potuto godersi un po' di svago in quel difficile periodo della nostra vita.
È lì che ho appreso ad amare il cinema e ho imparato a tirar tardi la sera. Si faceva l'una di notte, quando rientravamo a casa, mio padre ed io.
Mia madre protestava: “Deve alzarsi presto domani! Deve andare a scuola!” Lui fingeva di non sentire, io morivo dal sonno e correvo a letto. Quelle serate si concludevano così. Avevo dodici anni ed ero felice.Copyright foto esterna:
Clara Calamai e Massimo Girotti in "Ossessione" di Luchino Visconti (Italia,1943)
Lauren Bacali e Hamphey Bogart in "Il grande sonno" di Howard Hawks (Usa,1946)